Parlando di composizioni con regole precise e definite, la più importante è senza dubbio il sonetto; sia perché è presente fin dagli albori della poesia italiana; sia perché attraverso i secoli non ha mai conosciuto crisi; è ben rappresentato anche nel Novecento, che pure ha fatto di tutto per dissacrare la poesia. Se ne attribuisce l’ideazione a Iacopo da Lentini, poeta siciliano del Milleduecento, ed è un’apparizione significativa e singolare, perché pur derivando da forme poetiche popolari o da composizioni provenzali in lingua d’oc, ha caratteristiche nuove, che vengono subito accettate e diffuse, e non sono più variate in otto secoli. Il sonetto è formato obbligatoriamente da due quartine e da due terzine rimate. È giusto parlare di obbligo, perché la libertà del poeta è a monte, nella scelta di fare o di non fare il sonetto, visto che non lo ordina il dottore! Leopardi per esempio non ne ha fatti quasi mai. Chi sceglie di fare un sonetto deve sapere che le due quartine rimano fra loro con le stesse rime (non diverse tra prima e seconda strofa); possono essere rime alternate (A B A B) (A B A B) oppure incrociate (A B B A) (A B B A), come in questa poesia di Umberto Saba “Zaccaria”:
La vacca, l’asinello, la manzetta
al bimbo avvolto in scompagnati panni
erano stufa nell’inverno; i danni
ristorava dei morbi una capretta.
La sua mamma, che pace in cielo aspetta,
sei gli dava nel giro di dieci anni,
sei fratellini; pur, fra pianti e affanni,
due volte il dì fumava la casetta.
Là crebbe; e come sognava bambino,
poco ai campi lo vide il paesello.
Volle d’agricoltor farsi operaio.
Or – tra gli altri feriti – il tempo gaio
della pace ricorda; sul cappello
ha una penna: l’orgoglio dell’alpino.
Per completezza aggiungo che, di rado, si incontrano due varianti di quegli schemi, ottenute con uno scambio nella seconda strofa, e cioè rispettivamente: (A B A B) (B A B A) e (A B B A) (B A A B). Più possibilità ci sono nelle terzine, dove, in una ricerca fatta su circa venti tra antologie e vari testi, ho potuto trovare una decina di schemi:
1: (C D E) (C D E) 2: (C D E) (D C D ) 3: (C D E) (E D C) 4: (C D E) (D C E)
5: (C D E) (D C E) 6: (C D C) (C D C) 7: (C D D) (D C C) 8: (C D E) (C E D )
9: (C D C) (E D E) 10: (C D D) (E E C)
I primi due schemi sono i più antichi, usati già da Iacopo da Lentini e poi sempre presenti dal XIII al XX secolo. Il 3 e il 4 sono un po’ meno comuni, ma si trovano in Dante, in Petrarca e in molti altri poeti nei secoli seguenti. Il 5, il 6 e il 7 sono ancor meno comuni, ma sono stati usati già da Petrarca. L’8 e il 9 li ho trovati solo in epoche più recenti, rispettivamente dal Cinquecento e dall’Ottocento (tutti e due sono stati usati dal Foscolo). Il 10 infine l’ho citato, pur avendolo trovato solo in un autore del Novecento, sia perché è uno schema regolare, sia perché l’autore è Lucini, che, con Sanguineti e qualche altro, è uno dei “vati” del verso libero (ma evidentemente non solo!).
Altri schemi non li ho considerati, in quanto irregolari e rarissimi, o presenti in sonetti con varie licenze di metrica e di rima. C’è dunque poca scelta per le quartine, mentre le varianti per le terzine sono più numerose; e mi pare giusto, perché chi ha già sofferto per trovare delle buone rime nei primi otto versi, deve avere una certa facilità di arrivare in fondo, senza rimanere bloccato sul più bello! Non dimentichiamo mai che per fare una poesia in rima, bisogna trovare delle buone rime, non delle rime purchessia, altrimenti si dà ragione a quelli che la rima la odiano (e la temono).
Il verso del sonetto è l’endecasillabo. Si può usare, magari per prova, un verso differente, sapendo però che, a fronte di milioni di sonetti in endecasillabi, nella storia della poesia quelli in settenari o in novenari o in altri versi si contano sulla punta delle dita.
Il sonetto, composizione italiana “DOC”, è stato imitato nelle letterature straniere, in inglese, francese, spagnolo, portoghese, tedesco, russo, per esempio ad opera di Shakespeare, Baudelaire, Mallarmé, Borges, Machado e tanti altri. Poiché la metrica è strettamente legata alle caratteristiche lessicali e fonetiche di ciascuna lingua, gli schemi di rime in questi sonetti “stranieri” possono essere diversi e talvolta semplificati.
Una caratteristica importante del sonetto è racchiudere tutto quel che si vuol dire nell’arco di quattordici versi, non di più e non di meno, possibilmente con naturalezza, senza sforzarsi ad allungare o a stringere!
A dire il vero, se quattordici versi sono pochi, c’è una possibilità, e specialmente nei primi secoli della poesia italiana se n’è fatto un certo uso, soprattutto in composizioni scherzose: il sonetto “caudato” (ovvero con la coda); si aggiungono cioè uno o più versi (o perfino più terzine) in fondo al sonetto.
La forma maggiormente usata di sonetto caudato è la cosiddetta “sonettessa” che ha tre versi in più: un settenario che rima con l’ultimo verso del sonetto vero e proprio, seguito da due endecasillabi a rima baciata.
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01 novembre 2013
estratto da La Metrica Italiana
di Mario Macioce
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